Teatro alla Scala: Un Ballo in Maschera |
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Martedì 06 Settembre 2022 09:10 |
La nuova produzione scaligera di Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, se ha sufficientemente convinto sul piano musicale, non ha raggiunto analogo risultato su quello registico.
(Vittoria Lìcari) Al suo debutto milanese, il regista svizzero Marco Arturo Marelli – autore anche di scene e costumi – ne ha dato una interpretazione che, partendo da una lettura drammaturgica molto – forse troppo – personale, ha raggiunto un esito altalenante fra il didascalico e il criptico, nuocendo spesso alla corretta comprensione dell’opera, specie da parte di chi, fra il pubblico, non la conoscesse bene.
Al versante didascalico, nonché a quella forma di horror vacui di cui molti registi soffrono, appartiene l’azione scenica di Riccardo durante il preludio, che disturba notevolmente l’ascolto. Vero è che la pagina in questione contiene pressoché tutti gli elementi musicali riassuntivi dell’opera, ma che bisogno c’è di visualizzarli a tutti i costi? Il regista teme forse che il pubblico non sappia ascoltare? Perché questa smania di far prevalere l’elemento visuale su quello uditivo, che in un melodramma dovrebbero invece presentare massima coerenza?
Altro inutile didascalismo è la figura della morte che compare a Riccardo già nel preludio e ne accompagna l’agonia nel finale. Anche qui la musica sarebbe più che sufficiente a trasmettere il senso del dramma, tutt’altro che inatteso, anzi, perfettamente preparato dall’autore.
Gli influssi francesi, peraltro riconosciuti da Verdi stesso, «[…] sono evidenti nelle scene di corte e nella musica impertinente del paggio Oscar; Verdi sembra aver fatto proprio per la prima volta il mondo di Offenbach e di Delibes senza cadere dal sublime nel ridicolo.» (Julian Budden, Le opere di Verdi, Volume secondo, p. 401). Nel nostro caso, Marelli ritiene, forse, che sia il caso di rendere evidenti gli influssi offenbachiani impegnando il coro, sul finale del primo quadro, in un can can francamente fuori luogo e di gusto alquanto scarso, in tal modo cadendo, appunto, nel ridicolo.
Sul fronte dei costumi non si capisce perché, in un paio di occasioni, Riccardo venga abbigliato con fastosi abiti regali – scettro e mantello di ermellino – che lo fanno somigliare al re Carlo X di Francia nella regia ronconiana del Viaggio a Reims di Rossini piuttosto che a un governante decisamente alla mano con tutti qual è, appunto, Riccardo. Tentativo di evocazione del re Gustavo III di Svezia, antecedente storico del governatore di Boston? Può darsi, ma si tratterebbe di un altro di quei vezzi criptici che per nulla giovano alla comprensione dell’opera.
Unico momento abbastanza originale e, allo stesso tempo, utile all’azione è il fingersi morto di Riccardo subito prima di intonare “È scherzo od è follia”, che correttamente sottolinea il lato scanzonato, ma anche fatalista, del suo temperamento.
Sul versante musicale, il migliore in scena è Luca Salsi (Renato), che conferma, semmai ce ne fosse ancora bisogno, di possedere tutte le caratteristiche, vocali e interpretative, del vero baritono verdiano.
La voce squisitamente lirica di Francesco Meli mette in rilievo soprattutto il lato malinconico di Riccardo. Federica Guida è un Oscar perfetto, brillante e birichino al punto giusto, senza cadere nella petulanza. Sondra Radvanovsky, veterana nel ruolo di Amelia – che aveva interpretato alla Scala anche nell’allestimento del 2013 – senza dubbio possiede tutte le doti per affrontarne l’impervia vocalità con grande slancio, non esente, però, da emissioni di forza nelle note più acute e da un uso eccessivo di suoni di petto nel registro grave, fattori che potrebbero mettere a rischio la longevità della sua voce, peraltro molto interessante.
Ottime le prestazioni di Olga Matochkina (Ulrica), Sorin Coliban (Samuel) e Jongmin Park (Tom). L’orchestra della Scala e il coro – diretto da Alberto Malazzi – hanno fornito una grande prova sotto la bacchetta di Nicola Luisotti.
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