Teatro alla Scala: La Gioconda |
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Mercoledì 30 Novembre 2022 16:45 |
(Vittoria Licari) Pur non godendo della fama del suo ben più noto omologo parigino, il Cimitero Monumentale di Milano – vero e proprio museo a cielo aperto - può essere considerato il Père-Lachaise meneghino, in virtù dei personaggi illustri legati alla storia del capoluogo lombardo che vi sono sepolti o, quantomeno, ricordati. Fra coloro che vi riposano c’è anche Amilcare Ponchielli, che a Milano morì il 16 gennaio 1886 e al quale furono tributati solenni e partecipati funerali. Colpisce la lapide posta in sua memoria: «Vissuto povero gran parte della vita – morto di anni cinquantuno quando finalmente arridevagli la gloria». Non si può parlare, in realtà, di una vita particolarmente tribolata sul piano economico, bensì di una esistenza vissuta in gran parte al di sotto delle potenzialità di cui il musicista era detentore e delle sue – peraltro giuste - aspirazioni artistiche e sociali. Nato a Paderno - nel circondario di Cremona - il 31 agosto 1834, fu un bambino prodigio: a soli nove anni superò l’esame di ammissione ai corsi di composizione del Conservatorio di Milano, dove veniva chiamato “genietto” e da cui uscì, diplomato, per fare ritorno nei luoghi di origine come organista e direttore delle bande civiche di Cremona e di Piacenza. Nel 1856 riuscì a far rappresentare al Teatro Concordia di Cremona – dove era maestro sostituto – un lavoro decisamente ambizioso, e cioè la versione operistica dei manzoniani Promessi sposi, la cui fama rimase limitata all’ambito locale, ma che non mancò di incuriosire l’editore milanese Francesco Lucca, il quale pubblicò un certo numero di sue composizioni che potremmo definire “da salotto”: meglio di niente, ma certamente meno di quanto il giovane autore sperasse. Trascorse ancora un quindicennio di lavoro sostanzialmente nell’ombra, nel corso del quale Ponchielli subì anche un grave torto, quando, nel 1868, pur avendo vinto il concorso per l’insegnamento di armonia e contrappunto presso il Conservatorio di Milano, venne messo da parte in favore del più giovane – e, forse, più “appoggiato” - Franco Faccio. Finalmente, il 5 dicembre 1872, la prima vera soddisfazione: una nuova versione dei Promessi sposi, con il libretto revisionato da Emilio Praga – fra i principali esponenti della “scapigliatura” – andò in scena al Teatro dal Verme di Milano, da poco inaugurato, e destinato a diventare palcoscenico di importanti debutti come quelli di Puccini e di Leoncavallo. Da lì in poi la vita del trentottenne autore cambiò. Il successo riscosso indusse Giulio Ricordi ad accogliere Ponchielli nella propria casa editrice, ponendolo al centro della vita musicale di Milano, dove il compositore si trasferì di nuovo, questa volta non più da studente o aspirante docente, bensì da affermato compositore. La sua fama venne consolidata nel 1874 dal successo dei Lituani, un grand-opéra in stile italiano commissionatogli da Ricordi, il cui libretto portava la prestigiosa firma di Antonio Ghislanzoni. Due anni dopo fu la volta del trionfo della Gioconda, su testo di Tobia Gorrio (pseudonimo di Arrigo Boito) che consacrò l’autore come “erede” di Giuseppe Verdi, il quale, in quel periodo, sembrava intenzionato a ritirarsi dalle scene. La creazione della sua opera più celebre – l’unica che sia poi entrata stabilmente in repertorio – non fu, però, una passeggiata: Boito non si mostrò affatto collaborativo con Ponchielli, del quale non tenne in alcun conto le osservazioni su quelli che il compositore reputava punti deboli – se non veri e propri difetti – del libretto. Ma, a fronte delle troppo forti differenze di tipo artistico, estetico e caratteriale fra i due, la debordante personalità di Boito ebbe la meglio e portò alla “prima” scaligera del 1876, a seguito della quale Ponchielli rimise più volte mano alla partitura prima di potersi ritenere soddisfatto del risultato. Oltre che dalla ormai indiscussa autorevolezza come autore, i suoi ultimi anni furono coronati dalla riparazione del torto ricevuto un tempo da parte del mondo accademico con la nomina, nel 1881, a docente di “alta composizione” presso il Conservatorio di Milano, dove ebbe come allievi Puccini e Mascagni.
L’edizione proposta alla Scala nel giugno scorso poteva contare su di un cast di ottimo livello, molto equilibrato, e in cui ciascun cantante presentava una perfetta aderenza vocale e interpretativa al personaggio affidatogli. Ne facevano parte, nei ruoli principali, Saioa Hernández (Gioconda), Daniela Barcellona (Laura), Erwin Schrott (Alvise), Anna Maria Chiuri (la Cieca), Stefano La Colla (Enzo) e Roberto Frontali (Barnaba), diretti dalla raffinata bacchetta di Frédéric Chaslin. L’ambientazione della vicenda a Venezia – che costituisce la modifica più importante operata da Boito rispetto all’originale letterario di Victor Hugo, ovvero il dramma Angelo, tyran de Padoue – è stata esaltata dalla regia di Davide Livermore, che considera la città come vera protagonista dell’opera. La scenografia rotante di Giò Forma presenta, di volta in volta, scorci ed elementi architettonici che la identificano inequivocabilmente, mentre le proiezioni realizzate da D-WOK ne evocano lo sfondo paesaggistico generale, che emerge dalla nebbia e in essa si perde. Inutilmente didascalica, invece, la discesa di un angelo a ogni entrata in scena della Cieca e a ogni sua evocazione attraverso il motivo musicale che la contraddistingue, anche se il regista giustifica questa scelta con la lettura dell’azione scenica attraverso la sensibilità e le percezioni di questa figura - indubbiamente enigmatica - in quanto «[…] portatrice dell’istanza mistica, spirituale e spiritistica di questa drammaturgia che unisce sacro e profano in maniera indissolubile». In realtà, lo sdoppiamento dei personaggi è un déjà vu dell’estetica di questo regista – si pensi al finale della Tosca del 2019 – che nel caso di Gioconda altera profondamente il senso del finale dell’opera. Livermore, infatti, sdoppia sia Gioconda nel momento del suicidio, sia la madre, ed è il fantasma di quest’ultima a provocare il grido di Barnaba, che perciò non è più di rabbia – come indicato da Boito – bensì di spavento, una sensazione che da un simile personaggio non ci si potrebbe certo aspettare, anche se bisogna ammettere che si assiste così a un colpo di teatro di un certo effetto. Bellissima la coreografia della celeberrima Danza delle ore, firmata da Frédéric Olivieri, in cui i solisti del corpo di ballo e gli allievi della scuola scaligera sono stati, giustamente, applauditissimi. Orchestra e cori ai massimi livelli. Uno spettacolo da ricordare.
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